Un milione di piante e animali spariranno dalla faccia della terra e la salute degli ecosistemi si sta deteriorando velocemente. Questo l’appello lanciato a fine aprile dall’Intergovernment Science -Policy Platform Biodiversity and Ecosystem Services (Ibpes).
E a questo proposito Slow Food ha rilanciato il suo appello per un intervento serio e tempestivo e ha ribadito che cambiando le nostre scelte alimentari possiamo fare molto per salvare il suolo, l’acqua e l’intero pianeta.
Secondo Slow Food, la biodiversità è una risposta concreta alle emergenze quotidiane e ai cambiamenti climatici. Per questo motivo già nel 1996 l’organizzazione aveva deciso di creare l’International Ark of Taste un data base che oggi raccoglie quasi 5.000 alimenti in via di estinzione provenienti da oltre 150 paesi. L’obiettivo è catalogare cibi attualmente dimenticati dall’industria alimentare e rilanciarne l’utilizzo.
E a inizio anno nella sezione dedicata alla biodiversità Food + Tech Connect e The Future Market in una lunga intervista, Richard McCarthy, Slow Food USA Executive Director, aveva espresso alcuni concetti interessanti.
Alcuni passaggi.
Un sistema alimentare biodiverso ideale è quello in cui ogni regione si autodefinisce “casa del…” per la specificità delle sue coltivazioni e produzioni. Oggi tutti sono spinti a produrre e utilizzare gli stessi alimenti e questa tendenza ha creato molti danni come è successo in Nord America che ha visto una diminuzione della biodiversità negli ultimi 100 anni.
Quando decollano le mode e le tendenze ogni agricoltore ne segue l’esempio. Produttori e consumatori dovrebbero invece identificare prodotti iconici locali e collaborare con gli chef e altri operatori per far conoscere gli alimenti che nascono e vengono prodotti proprio in certe località, facendone apprezzare la differenza.
È difficile essere ottimisti … stiamo perdendo biodiversità a un ritmo allarmante. Tra le cause principali il nostro rapporto con la carne economica. Mette un’indebita pressione su animali, ecosistemi ed economie. Pretendiamo di avere tutta la carne che vogliamo, quando vogliamo e non ne consideriamo i costi nascosti. Peggio ancora, esportiamo questo modello in tutto il pianeta. Di conseguenza, luoghi come Para in Brasile consentono agli speculatori di introdurre coltivazioni intensive di soia su terreni precedentemente abitati da piccoli agricoltori le cui fattorie avevano un ruolo fondamentale per rigenerare il suolo e le economie. Questo modello economico distrugge la biodiversità.
Quando come individui e istituzioni non supportiamo le mono colture intensive, sosteniamo le economie locali, con prodotti freschi e sostenibili, e la biodiversità.
Ripensiamo al pranzo scolastico come materia di studio. È importante far crescere bene la prossima generazione insegnando ai bambini ad apprezzare cibi nuovi e interessanti. La scuola ha un ruolo fondamentale perché può creare una nuova cultura basata sulla storia e sulla geografia dei cibi.
Quando riduciamo la biodiversità, limitiamo la nostra capacità di essere flessibili e resilienti. A partire dalla nostra dipendenza eccessiva dal grano e da alcuni cereali che ha svuotato le economie rurali della loro ricchezza, ha inondato i corsi d’acqua con prodotti chimici e ha prodotto generazioni con allergie e intolleranze alimentari.
La cura è non mettere tutte le uova in un cesto. La centralizzazione fa male alla salute economica. Se ogni azienda agricola coltiva la stessa specie e vende allo stesso cliente, nascerà una guerra di prezzi che non porterà a investire sulla terra e sulle persone.
Il cambiamento è difficile. Dovremmo incentivare gli agricoltori a collaborare tra di loro, e a fare azioni di marketing diretto, per promuovere e tutelare a lungo termine i territori, diversificando le colture e migliorando la qualità dell’acqua e dell’aria. E i consumatori hanno un ruolo importante, soprattutto se lavorano a stretto contatto con gli agricoltori. Alcuni consumatori parlano a voce alta ma alla fine sono i piccoli consumatori che possono cambiare l’andamento della partita.