Uno studio condotto da un team di ricercatori internazionali guidato dalla National Geographic Society e dall’Università della California, Davis, ha portato a un risultato confortante: circa la metà delle superfici della Terra prive di ghiacci è rimasta quasi intatta, nel senso che le attività umane non ne hanno alterato gli habitat.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Global Change Biology, si è basato sul confronto di quattro recenti mappe globali che evidenziano le trasformazioni di alcuni ambienti naturali indotte dalle attività umane: urbanizzazione, creazione di aree per coltivare o allevare bestiame, estrazione di materiali.
I dati emersi, secondo Jason Riggio, studioso post dottorato presso UC Davis Museum of Wildlife and Fish Biology, sono rassicuranti a condizione di riuscire a conservare le superfici ancora intatte che contribuiscono a preservare l’equilibrio globale.
Circa il 15 per cento della superficie terrestre e il 10 per cento degli oceani sono attualmente protetti da organizzazioni, tra cui Nature Needs Half e Half-Earth Project, e sono state fatte richieste per arrivare a proteggere il 30 per cento delle superfici, terra e acqua, entro il 2030 e addirittura il 50 per cento entro il 2050.
Le aree in cui persistono habitat naturali possono aiutare a purificare l’aria e l’acqua, riciclare i nutrienti, migliorare la fertilità e la ritenzione del suolo, impollinare le piante, ridurre il volume di rifiuti. Mantenere questi servizi ecosistemici vitali per l’economia umana è decisivo, negli Stati Uniti è stato calcolato che questi servizi raggiungono un valore di miliardi di miliardi di dollari l’anno.
Non solo. La pandemia che ha colpito indiscriminatamente il nostro pianeta ha messo in luce in modo evidente l’importanza di mantenere queste aree naturali per separare l’attività umana da quella animale. Le principali prove scientifiche indicano che il famigerato SARS-CoV2 è un virusus zoonotico, passato dagli animali all’uomo. Ebola, influenza aviaria e SARS sono altre malattie che si sono diffuse nella popolazione umana proprio con analoghe modalità di trasmissione.
“Il rischio che questo tipo di malattie si diffonda tra gli esseri umani potrebbe essere ridotto arrestando il commercio e la vendita di animali selvatici e riducendo al minimo l’intrusione umana nelle aree selvagge”, ha affermato l’autore senior Andrew Jacobson, professore di GIS e conservazione presso il Catawba College nella Carolina del Nord.
Jacobson sostiene l’esigenza di una pianificazione regionale e nazionale dell’uso del suolo per identificare con evidenze scientifiche le zone idonee alla crescita urbana e all’agricoltura. Per il ricercatore sarebbe utile anche proteggere altre aree, in particolare quelle che al momento sono state poco intaccate dalle attività umane, come le vaste distese di foreste boreali e tundra in tutta l’Asia settentrionale e il Nord America e vasti deserti come il Sahara in Africa e l’Outback australiano. Tutte zone che per ragioni climatiche sono meno adatte all’agricoltura.
Le aree a bassa influenza umana non escludono necessariamente persone, bestiame o gestione sostenibile delle risorse, ma serve un approccio equilibrato per riuscire a coniugare le attività umane con la protezione dei servizi ecosistemici e della biodiversità.
“Il raggiungimento di questo equilibrio sarà necessario se intendiamo perseguire obiettivi ambiziosi di conservazione”, ha dichiarato Riggio, “ma questo studio ci dà prospettive positive, questi obiettivi sono ancora a portata di mano.”
Il progetto è stato il risultato di un workshop realizzato dal National Geographic Society e dalla Fondazione Leonardo DiCaprio, tenutosi nel maggio 2018, e lo studio è stato pubblicato il 5 giugno, giornata dell’Ambiente, in vista dell’appuntamento tradizionale della Convention on Biological Diversity che si sarebbe dovuto tenere in Cina quest’autunno, rinviato a causa della pandemia.
La foto è di Jason Riggio dell’Università della California, Davis.