Nel 2009 in California è partita una vera e propria task force per combattere l’invasione dei granchi verdi europei nella baia di Seadrift Lagoon di Stinson Beach. Questo granchio è considerato tra le 100 specie più invasive del mondo e negli Stati Uniti provoca ogni anno 20 milioni di dollari di perdite economiche a chi opera nel settore commerciale dei molluschi. Il lungo lavoro ha coinvolto in prima linea i ricercatori della UC Davis
Nel 2013, finalmente il progetto sembrava dare i primi risultati: la popolazione era diminuita, da 125.000 a meno di 10.000 individui. Ma un anno dopo, nel 2014, lo scenario ha sorpreso tutti: gli esemplari erano diventati circa 300.000, un numero che superava di ben 30 volte i livelli del 2013 ed era quasi triplicato rispetto alla data di partenza del progetto.
I ricercatori stavano monitorando anche quattro altre baie vicine e hanno dovuto constatare che questa crescita esponenziale della popolazione di granchi era proprio limitata all’area in cui stavano conducendo il progetto. Non dipendeva da cambiamenti atmosferici o oceanografici.
Dagli approfondimenti scientifici, infatti, è emerso che l’esplosione demografica era dovuta allo specifico comportamento dei crostacei adulti che sono soliti cannibalizzare gli individui più giovani, dunque la loro rimozione favoriva lo sviluppo incontrollato dei giovani, che non poteva essere matematicamente compensata dall’eliminazione degli adulti. Un fenomeno che gli scienziati hanno definito “effetto Idra”, prendendo spunto dal mostro della mitologia greca le cui nove teste ricrescono ogni qual volta vengono tagliate.
“Un fallimento nella scienza spesso porta in direzioni inaspettate”, ha detto l’autore principale Edwin (Ted) Grosholz, professore ed ecologo presso il Dipartimento di Scienze e politiche ambientali della UC Davis. “In fondo, dopo la delusione e la constatazione del fallimento, alla fine questo caso ci ha dato informazioni utili e ci ha anche indicato una via d’uscita.” Una lezione che, secondo il professore, ha una valenza più ampia: in molti casi, è sbagliato adottare una strategia per l’eliminazione totale delle specie invasive, è invece opportuno e più efficace intraprendere un percorso di eliminazione funzionale.
La cosiddetta “Functional eradication” è stata descritta con dettagli da alcuni ricercatori dell’Università di Alberta, lo studio è stato pubblicato nel numero di marzo di Frontiers in Ecology and the Environment.
Gli autori suggeriscono di valutare le possibili conseguenze non intenzionali nella selezione delle strategie di gestione e di adattarle al contesto particolare e al risultato atteso. Il consiglio è di adottare un approccio “Goldilocks level”, in cui l’obiettivo è arrivare ad avere una popolazione sufficientemente bassa in grado di tutelare le specie native e le funzioni dell’ecosistema senza rischiare un’esplosione demografica delle specie invasive.
“Piuttosto che cercare di eliminare completamente le specie invasive che si sono diffuse su vaste aree, un traguardo anche molto impegnativo, l’eliminazione funzionale mira a limitare la loro abbondanza al di sotto dei livelli che danneggiano l’ecosistema nelle posizioni prioritarie. Questa strategia ha implicazioni anche sul fronte delle risorse: nel tentativo di eliminare completamente le specie invasive potrebbero essere sprecate, con l’eliminazione funzionale invece potrebbero essere distribuite proteggendo più luoghi “, ha spiegato Stephanie Green, assistant professor in the Department of Biological Sciences and Canada Research Chair in Aquatic Global Change Ecology and Conservation.
Green ha collaborato proprio con Grosholz per interrogare 232 responsabili della gestione di risorse naturali e specialisti di specie invasive in Canada e negli Stati Uniti riscontrando divari nelle strategie.
“Più del 90% di queste persone ha affermato che gli invasori più distruttivi nelle loro regioni si sono diffusi a un livello tale che rende impossibile la loro eliminazione totale mentre le squadre locali sono impegnate in una battaglia a lungo termine per contenere le specie”, ha spiegato Green. E per ridurre l’impatto ambientale degli invasori il coinvolgimento delle comunità locali è fondamentale. “Il nostro studio dimostra proprio che le specie invasive diffuse e dannose per l’ambiente sono i principali candidati per l’eliminazione funzionale…e gli obiettivi devono essere basati sul calcolo del numero di specie invasive in grado di grandi cambiamenti nell’ecosistema “, ha affermato Green.
Il commento minimalista di Grosholz è esplicito: “Non cercare di prenderli tutti, o potrebbero tornare a morderti”
Questa ricerca è stata finanziata dal David H. Smith Conservation Research Program, dal Natural Sciences and Engineering Research Council of Canada, dalla Pacific States Marine Fisheries Commission e dalla National Science Foundation.
Nella foto Stephanie Green.