Molte delle risorse del nostro pianeta si stanno esaurendo e questo vale soprattutto per i tanti metalli impiegati per la produzione di diversi materiali e oggetti. Recuperare dai fondali marini metalli preziosi potrebbe essere una soluzione. Ma il monito che ci arriva dalla scienza è chiaro: mancano normative chiare e condivise che ne regolano l’estrazione e soprattutto questa operazione danneggerebbe gli ecosistemi. Gli ecosistemi naturali per funzionare hanno bisogno di tutti gli attori coinvolti, piccoli o grandi che siano, e ogni azione che ne altera gli equilibri ha conseguenze a breve e a lungo termine.
Noduli e concrezioni polimetalliche coprono molte migliaia di chilometri quadrati di fondali marini. Sono stratificazioni che contengono principalmente manganese e ferro, ma anche altri metalli come nichel, cobalto e rame, tutte risorse che potrebbero scarseggiare in futuro. Questo vuol dire che i fondali marini e i loro depositi potrebbero presto diventare una fonte economicamente molto interessante. Ma con quali conseguenze?
Molti studi hanno già dimostrato che la vita di molti degli abitanti dei fondali marini dipende da queste stratificazioni e che alcuni sono scomparsi nel momento in cui l’ecosistema subiva delle variazioni. Ora nell’ambito del progetto “MiningImpact”, un team di ricercatori del Max Planck Institute for Marine Microbiology, del Alfred Wegener Institute, del GEOMAR Helmholtz Center for Ocean Research ha esaminato più da vicino i più piccoli abitanti dei fondali marini e le loro prestazioni.
Il team di ricercatori ha operato in una cosiddetta area DISCOL (DIS-turbance e re-COL-onization) situata nel Pacifico orientale tropicale, circa 3000 chilometri al largo della costa del Perù, per studiare le condizioni del fondo marino e l’attività dei suoi microrganismi. Nel 1989, qui i ricercatori tedeschi avevano simulato gli effetti legati all’estrazione mineraria “arando” i fondali in un’area di noduli di manganese di tre chilometri e mezzo di diametro con un aratro dotato di erpice, a 4000 metri sotto la superficie dell’oceano.
“Anche 26 anni dopo questo esperimento di “disturbo”, le tracce dell’aratro sul fondo del mare erano ancora chiaramente visibili”, riferisce Tobias Vonnahme, che ha partecipato allo studio nell’ambito della sua tesi di laurea presso il Max Planck Institute for Marine Microbiology. “E anche gli abitanti batterici ne sono stati chiaramente colpiti.”
Rispetto alle regioni non-disturbate del fondale marino, solo circa i due terzi dei batteri vivevano nelle vecchie tracce e solo la metà di essi in nelle tracce arate più di recente. Inoltre il tasso di attività di vari processi microbici era ridotto di tre quarti rispetto alle aree indisturbate, anche dopo un quarto di secolo. “I nostri calcoli hanno dimostrato che i microbi impiegano almeno 50 anni per riprendere completamente la loro normale funzione”, ha affermato Vonnahme.
Così in profondità e lontano dalle forti correnti sulla superficie del mare, non è così sorprendente che fossero ancora visibili tracce su scala minore dell’esperimento DISCOL. “Tuttavia, anche le condizioni biogeochimiche hanno subito cambiamenti duraturi”, ha sottolineato Antje Boetius. Secondo i ricercatori, ciò è dovuto principalmente al fatto che l’attività di aratura distrugge lo strato di sedimento attivo superiore.
In queste “aree disturbate”, gli abitanti microbici riescono a fare un uso limitato del materiale organico che si deposita sul fondale del mare dagli strati idrici superiori. Di conseguenza, perdono una delle loro funzioni chiave per l’ecosistema. Le comunità microbiche e le loro funzioni potrebbero quindi essere considerate indicatori fondamentali dei danni provocati dall’estrazione dei metalli.
In questo contesto poi tutte le tecnologie di estrazione attualmente in fase di sviluppo potrebbero creare danni gravi alla vita dei fondali marini fino a una profondità di almeno dieci centimetri, paragonabile al disturbo simulato qui, ma in dimensioni completamente diverse. L’estrazione mineraria commerciale interesserebbe da centinaia a migliaia di chilometri quadrati di fondali marini all’anno, mentre le tracce di aratura della simulazione DISCOL nel loro insieme coprivano solo circa tre chilometri quadrati. Il danno che ci si aspetta è di conseguenza maggiore, e sarebbe altrettanto più difficile recuperare l’ecosistema, sottolineano i ricercatori.
“Finora, solo pochi studi hanno affrontato gli effetti sulla funzione biogeochimica dei fondali marini causati dall’estrazione mineraria”, spiega Boetius. “Con questo studio, stiamo contribuendo allo sviluppo di standard ambientali per l’estrazione in acque profonde e sottolineamo i limiti nella possibilità di recupero dei fondali marini. Le tecnologie ecologicamente sostenibili dovrebbero assolutamente evitare di rimuovere lo strato superficiale densamente popolato e bioattivo del fondo marino”.