Food Tech Connect e The Future Market realizzano regolarmente una serie di interviste per mettere a fuoco il tema della biodiversità. Una delle più recenti ha come protagonista Kathleen Merrigan, ex vice segretario e direttore generale del Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti, che ha contribuito alla stesura del documento Organic Foods Production Act (OFPA) del 1990 e che oggi è direttore e docente del Swette Center for Sustainable Food Systems nello Stato dell’Arizona.
Qui sono estrapolati alcuni passaggi illuminanti.
Per capire realmente la produzione alimentare, dovremmo considerarne tutti i possibili impatti – biodiversità, salute umana, qualità dell’acqua, clima, spreco di cibo…solo così i costi, in gran parte invisibili – perché non valutati monetariamente – diventerebbero espliciti e si potrebbero fare scelte consapevoli e trasparenti.
Lo stato dell’Arizona sta sostenendo il lavoro che sto portando avanti per il TEEB for Agriculture and Food, un’iniziativa del programma ambientale degli Stati Uniti che coinvolge anche la Global Alliance for the Future of Food. TEEB sta per “The Economics of Ecosystems and Biodiversity”, si propone di “rendere visibili e misurabili i valori della natura”, e ora il TEEB “AgriFood” coinvolge quasi 200 ricercatori di 33 Paesi nel tentativo di sviluppare una metodologia che consenta di identificare e portare alla luce tutte le implicazioni e gli effetti della produzione alimentare, siano essi positivi o negativi.
L’idea è semplice: solo queste valutazioni permettono di capire il vero costo del cibo e solo le evidenze porteranno i responsabili politici a prendere decisioni informate e, auspicabilmente, migliori.
La gente è rimasta scioccata nel leggere i dati pubblicati dalla FAO sul cibo sprecato, 1 trilione di dollari l’anno, questi dati allarmanti hanno fatto nascere tante nuove proposte politiche per far fronte al problema. Affrontare la questione della biodiversità contabilizzandone i costi finirà per costringere i responsabili politici ad agire.
Certificazioni…l’etichetta biologica è la migliore, ma credo che sia arrivato il momento di aggiungere al National Organic Program anche indicazioni sulla biodiversità. Avevamo in mente la biodiversità quando stavamo elaborando il documento sulla produzione degli alimenti biologici nel 1990 (OFPA) e quando abbiamo pubblicato le sue norme nel 2000. Ma se andate a vedere non troverete una sezione specifica sulla “biodiversità”. Era difficile identificare, misurare e applicare gli standard della biodiversità.
Oggi siamo in grado di farlo, abbiamo un metodologia integrata per migliorare gli standard biologici all’insegna della biodiversità, della salute del suolo e di altri aspetti senza dover creare nuova legge. L’OFPA richiede che tutti i produttori stabiliscano un piano organico da sottoporre a revisione come parte della certificazione. Questo requisito non è stato utilizzato nei modi che avevo immaginato, spesso lascia spazio alla creatività e sfortunatamente si stanno moltiplicando le etichette e le certificazioni che dichiarano che il prodotto è “migliore” del biologico, cosa quasi sempre non vera e che confonde i consumatori che cercano di fare la cosa giusta.
I consumatori dovrebbero fare pressione sul mercato per ricevere informazioni sulla biodiversità.
L’afflusso di nuovi capitali, in particolare da parte di venture capitalist che hanno fatto la loro prima fortuna nella Silicon Valley, può trasformare il settore alimentare. Molte di queste aziende si impegnano in “impact investing”, vogliono fare solo investimenti su sistemi alimentari sostenibili.
Ho sempre sostenuto che è sciocco pensare che cambieremo il sistema alimentare senza cambiare le persone che siedono ai tavoli in cui si prendono le decisioni. A quel tavolo dovrebbero partecipare persone in grado di rappresentare le diversità demografiche della società e in questo contesto il ruolo e la presenza femminile è fondamentale. Biodiversità vuol dire anche sostenere in modo adeguato le donne, che hanno molte difficoltà nel reperire i capitali necessari alle loro aziende e che sono scarsamente rappresentate nelle sale riunioni…
Abbiamo bisogno di una maggiore diversità in ciò che coltiviamo e mangiamo.
Il mio “chiodo fisso” è trovare un modo per rendere redditizie le rotazioni delle colture. Le rotazioni delle colture che migliorano il suolo sono una pietra miliare della sostenibilità e una pratica dettata dalla legge sulla produzione di alimenti biologici. Ma troppo spesso gli agricoltori perdono denaro su colture che fanno bene all’ambiente ma per cui non ci sono richieste di mercato. Lo chef Dan Barber e altri suoi colleghi si impegnano per valorizzare certe colture ma c’è molto da fare.
Quando percorriamo i corridoi dei nostri supermercati apparentemente c’è una grande quantità di offerta. In alcuni centri si arriva ad avere fino a 60.000 articoli diversi e in alcuni superstore se ne possono contare 200.000!
Eppure non è così: molti marchi, etichette e quantità suggeriscono la diversità, ma quando si va oltre il marketing gran parte di ciò che ci viene presentato è fondamentalmente lo stesso prodotto: stessi ingredienti, stesse varietà, stesse società.
Cambiare questo scenario è difficile. Ed è difficile trovare un vero prodotto nuovo in un negozio…Ho molto apprezzato il fatto che il Whole Foods Market avesse attivato il personale nella ricerca di prodotti alimentari locali per aiutare i piccoli agricoltori e far arrivare i loro prodotti negli scaffali, ma non so se questa pratica è ancora in atto.
Anni fa portavo i miei studenti all’Università del Massachusetts al Cold Spring Orchard Research and Education Center di Belchertown dove coltivavano oltre 200 varietà di mele. È stata una vera gioia assaggiare i diversi tipi di mele e farsi spiegare dai ricercatori le ragioni per cui alcune varietà sono cadute in disgrazia o risultano più resistenti ai parassiti. Ma quale punto vendita porterà più di una manciata di varietà? Mi piacerebbe vedere un negozio di alimentari che lavora con questa missione: celebrare la biodiversità. Dovrò sognarlo per un po’.
E’ bello leggere articoli come questi su “sognatori” del food; nel contempo si capisce (e un po’ ci si dispera) su quanto lavoro ci sia ancora da fare nella struttura stessa dei sistemi di produzione, certificazione e distribuzione.
Forse è meglio parlare di dover “cambiare” la struttura stessa della società…?
Credo che ci troviamo di fronte a un bivio che deciderà il futuro delle prossime generazioni, dobbiamo produrre in modo sostenibile e dobbiamo ristabilire e rivalorizzare la biodiversità perché la Terra domani possa dar da mangiare a tutti.