La seta potrebbe rendere l’agricoltura più sostenibile

La scoperta deve essere ancora testata in campo, ma i risultati ottenuti in ambienti controllati sono molto positivi e potrebbero portare a una svolta: rendere nuovamente produttive tante terre degradate, non più utilizzabili per l’agricoltura.

Un team di ricercatori del MIT, guidato dall’italiano Benedetto Marelli, professore di ingegneria civile e ambientale presso il famoso istituto americano, ha ricoperto i semi con un rivestimento protettivo di seta, che fornisce anche nutrienti essenziali alla pianta, consentendole di vivere in terreni difficili; la seta è trattata con una specie di batteri che producono naturalmente un fertilizzante azotato. I test hanno dimostrato che questi semi possono crescere con successo anche in terreni molto salati.

Questa ricerca è nata da un precedente studio di Marelli sull’uso della seta come rivestimento per prolungare la shelf life degli alimenti e dei semi senza bisogno di refrigerazione. In quell’occasione Marelli stava studiando alcuni biofertilizzanti che possono essere utilizzati per aumentare la quantità di nutrienti nel terreno.  Questi fertilizzanti usano batteri che vivono simbioticamente con alcune piante e convertono l’azoto dall’aria in una forma che può essere prontamente assorbita dalle piante.

Questi rizobatteri si trovano naturalmente in tutti i terreni, anche se è difficile preservarli fuori dal suolo. Per questo Marelli e il suo team hanno deciso di utilizzare la seta e di aggiungere un particolare nutriente al mix, una specie di zucchero noto come trealosio, che è prodotto naturalmente da molti microrganismi per sopravvivere in condizioni difficili, come il calore e lo stress da siccità.

La seta, i batteri e il trealosio sono stati tutti sospesi in acqua e i ricercatori hanno semplicemente immerso i semi nella soluzione per alcuni secondi per produrre un rivestimento uniforme.

La seta usata non è la stessa usata nell’industria tessile; è un sottoprodotto dei bozzoli, e ha un duplice obiettivo: funge da barriera per proteggere i semi dal terriccio duro e salato e fornisce un fertilizzante naturale incorporato attraverso i rizobatteri, dando ai semi i nutrienti.

I risultati sono stati eccellenti. Le piante, aiutate dalla continua produzione di fertilizzanti da parte dei batteri, si sono sviluppate in modo migliore rispetto a quelle provenienti da semi non trattati e sono cresciute anche in campi non idonei all’agricoltura.

I ricercatori sostengono che questi rivestimenti potrebbero essere applicati ai semi mediante immersione o a spruzzo, operazioni semplici e praticabili a temperatura e pressione ambiente ordinarie. Il processo è rapido, facile, scalabile e non richiede particolari attrezzature dunque potrebbe essere utilizzato da grandi aziende agricole ma anche da semplici coltivatori.

I rizobatteri normalmente forniscono fertilizzanti alle colture di leguminose come fagioli e ceci comuni, ma potrebbe essere valutato il loro impiego anche per altri tipi di colture e in ogni caso questa soluzione, anche se limitata alle leguminose, potrebbe cambiare la vita di tante regioni con ampie aree di terreno salino. La soluzione porterebbe anche a un’importante riduzione dei fertilizzanti azotati che hanno effetti negativi sull’ambiente.

Per quanto riguarda la seta, secondo i ricercatori, il rivestimento potrebbe essere costituito anche da altri materiali, come ad esempio la cellulosa, ma in ogni caso per produrre seta servono alberi quindi l’intero processo sarebbe perfetto dal punto della sostenibilità.

Ora i ricercatori stanno lavorando allo sviluppo di nuovi rivestimenti che potrebbero non solo proteggere i semi dal terreno salino, ma anche renderli più resistenti alla siccità, utilizzando rivestimenti che assorbono l’acqua dal terreno. A partire dal prossimo anno saranno fatti test in campi sperimentali aperti in Marocco.

La ricerca è stata realizzata con il supporto di Université Mohammed VI Polytechnique-MIT Research Program, the Office of Naval Research, and the Office of the Dean for Graduate Fellowship and Research.

I risultati sono stati pubblicati sulla rivista PNAS.

L’immagine è del MIT.

Alessandra Apicella

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