Si continua a parlare di produrre cibo in modo sostenibile per tutelare e rigenerare le risorse del nostro pianeta, ma i ricercatori stanno lavorando da tempo su questo fronte. I nostri centri e le nostre università sono un vero serbatoio di conoscenze, di progetti, di soluzioni, basterebbe avere solo il coraggio di bussare di più alle loro porte. Si scoprirebbero tante verità spesso ignorate e una marea di idee che, con gli adeguati investimenti, potrebbero diventare soluzioni decisive e anche opportunità di business.
E l’università di Tuscia, con due dei suoi gruppi di lavoro, è un vero centro di competenza e un punto di riferimento per il settore alimentare: nel dipartimento DAFNE si studiano le materie prime, nel dipartimento DIBAF sono sotto osservazione i processi di trasformazione. Ovviamente tutti i progetti hanno un obiettivo condiviso, la sostenibilità. Non è un caso che proprio il dipartimento DAFNE sia stato scelto dalla FAO come partner di riferimento per la lotta biologica alle malattie batteriche delle piante.
In questo dipartimento è impegnata da anni Stefania Masci, si occupa in particolare di frumento. “Schematizzando, il nostro lavoro di ricerca si svolge su quattro livelli. Il primo riguarda lo studio della variabilità genetica naturale, ci preoccupiamo di identificare i genotipi che possano conferire maggiore resistenza e produttività per arrivare ad avere piante coltivate migliori. I risultati non sono mai immediati. Ogni specie ha un ciclo vitale diverso e, anche se viene impiegata la tecnica dello “speed breeding”, che utilizza celle climatiche per accelerare le generazioni, non si riesce ad avere un nuovo genotipo in un periodo di tempo inferiore ai sei anni. E una volta ottenuto, vengono effettuati ancora studi e test su diversi campi nazionali e anche in questa fase servono due o tre anni prima di essere certi degli esiti e finalmente poter avere una nuova varietà commerciale.
“Se non si trovano in natura questi genotipi migliori – continua Stefania – si percorre la strada della mutagenesi, che è quello che io definisco il secondo livello. Questa tecnica è oggi oggetto di controversia, in quanto, secondo la Corte di Giustizia Europea del 15 luglio 2018, gli organismi ottenuti mediante mutagenesi costituiscono OGM e, in linea di principio, sono soggetti agli obblighi previsti dalla direttiva sugli OGM. Tuttavia la Corte stessa ritiene che ciò non possa essere applicato a quelle tecniche che sono state utilizzate convenzionalmente in varie applicazioni con una lunga tradizione di sicurezza, lasciando la decisione agli Stati membri riguardo alla necessità o meno di assoggettare quanto ottenuto per mutagenesi convenzionale agli obblighi di legge sugli OGM (Direttiva 2001/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 marzo 2001).
“Ma a prescindere dallo stato di confusione legislativo, che purtroppo non aiuta né i produttori e tantomeno i consumatori – continua Stefania – la mutagenesi convenzionale richiede molti interventi di “re-incrocio” per eliminare tutte le mutazioni indesiderate e lasciare solo quelle utili. Questi interventi non sono invece necessari qualora si utilizzino i sistemi di mutagenesi basati sul sistema CRISPR.
“Questo sistema, che fa parte delle cosiddette New Breeding Techniques (NBT), permette di fare interventi mirati sul DNA per effettuare specifiche modifiche al genoma. Sebbene la legislazione attuale li definisca come OGM, in realtà gli organismi che si ottengono non hanno alcun DNA estraneo al loro interno, questo crea peraltro un problema per la loro rintracciabilità con sistemi molecolare.
“Diverso è il discorso sui veri OGM, in quanto in questi viene introdotta una sequenza appartenente a un’altra specie, non sessualmente compatibile. Semplificando e banalizzando – continua Stefania – è come se per rendere la vite resistente alla peronospora la modificassimo con dei geni di un tipo di patata resistente a questo patogeno, o viceversa. Le sequenze di geni che svolgono una stessa funzione sono molto conservati anche tra specie molto distanti tra loro, pertanto, secondo il parere dei ricercatori, questo non dovrebbe creare alcun problema, tuttavia questi OGM trovano difficoltà ad essere accettati dai consumatori.”
“No Ogm” è un messaggio molto presente ed evidenziato sulle confezioni dei prodotti e anche per questo molto percepito dai consumatori, anche se le conoscenze su queste tematiche sono scarse. Oggi emergono anche alcune contraddizioni: c’è un grande entusiasmo nei confronti delle nuove alternative alla carne, anche se in alcuni casi nascono in un laboratorio…chiediamo a Stefania cosa ne pensa.
“Oggi sono numerose le petizioni che sollecitano l’Unione Europea ad avere una visione più aperta e scientificamente più evoluta sul funzionamento di certe tecnologie, anche perché il loro impiego sarebbe decisivo proprio in tema di sostenibilità. Ci potrebbero essere piante più resistenti ai cambiamenti climatici e alle malattie, anche l’uso di sostanze chimiche per i loro trattamenti verrebbe ridotto o addirittura eliminato. Potrebbero essere introdotte nuove varietà che contribuirebbero a far crescere la biodiversità. Le innovazioni tecnologiche sono sempre un’opportunità, è evidente che servono normative adeguate che ne regolino un impiego etico e consapevole.
“Produrre cibo sano e sicuro per tutti nei prossimi è davvero una sfida e va affrontata su più fronti, anche grazie all’impiego di tutte le soluzioni tecnologiche che oggi abbiamo a disposizione. E questo non vuol dire che certe pratiche colturali come il biologico non siano già ottime, proprio perché rispettose dell’ambiente. Il problema è che il vero biologico prevede rotazioni colturali, rese ridotte e costi e non può essere la risposta all’esigenza di nutrimento degli oltre 9 miliardi di persone che si prevedono nel 2050.
I consumatori sono bombardati da messaggi e spesso non hanno gli strumenti per interpretarli correttamente e per fare vere scelte consapevoli, come aiutarli?
“Noi che facciamo ricerca, fino a una quindicina di anni fa abbiamo continuato a sbagliare. Parlavamo tra di noi, vivevamo un po’ in una campana di vetro e il pubblico ci ha percepito così: isolati, staccati dal mondo reale. Poi finalmente abbiamo capito che comunicare il nostro lavoro e i nostri risultati era decisivo. La “dissemination”, l’impegno a comunicare e divulgare oggi è diventato un aspetto fondamentale del nostro lavoro. Ora le Università, accanto alla prima missione, che è quella dell’insegnamento, e alla seconda, che è quella della ricerca, hanno una terza missione, quella di interagire direttamente con la società.
Ma Stefania e il suo gruppo si stanno anche occupando degli aspetti più propriamente nutrizionali del frumento…
“In particolare, stiamo studiando i frumenti antichi, tra cui il Triticum turanicum, di cui fa parte il Kamut, che comprende molti genotipi preziosi in termini di variabilià genetica. Ma sviluppiamo anche genotipi di frumento che permettano di accumulare una quantità maggiore di fattori salutistici, quali micro-elementi o beta-carotene, o con una minore quantità di proteine che generano reazioni avverse al frumento, quali le allergie o la sensibilità al frumento di tipo non celiaco. In questo campo stiamo collaborando con gastroenterologi e anche con ricercatori che studiano il suolo, ma anche con imprese che si occupano di produzione sementiera o di trasformazione. Nella ricerca, la collaborazione è fondamentale. Sia con altri enti di Ricerca, a livello nazionale e internazionale, sia con le imprese. Solo condividendo si raggiungono traguardi significativi.”
…da un lato c’è la coscienza di non voler modificare così in profondità la natura, dall’altro la legittima aspirazione dell’uomo a modificare in meglio parte dell’ambiente in cui vive per renderlo più adatto alle proprie esigenze ed aspirazioni…difficile decidere…